mercoledì 2 maggio 2007

Heinrich Schliemann (4)

Dopo Itaca, Schliemann si reca a Micene e a Tirinto, ma ormai è Troia che l’interessa e, seguendo la traccia del suo sogno, s’imbarca per la Turchia.
Molti allora pensavano che Troia sorgesse su un’altura che domina il villaggio di Pinarbasi. Arrivato sul posto, Schliemann scrive: “Potei appena dominare la mia emozione di fronte all’immensa pianura di Troia, la cui immagine aveva popolato i sogni della mia infanzia. Tuttavia, a prima vista, mi parve troppo lunga e Troia troppo distante dal mare”.
Omero era la bibbia di Schliemann. Per lui era assolutamente escluso che i cenni topografici contenuti nell’Iliade e nell’Odissea fossero falsi. Ora, nell’Iliade appunto, greci e troiani, combattendo, si spostavano spesso, anche più volte in una sola giornata, dalla città di Priamo al luogo dove erano ancorate le navi. Quindi Troia doveva trovarsi più vicino alla costa. D’altronde, come avrebbe potutto Achille, inseguendo Ettore, fare tre volte di corsa il giro di questa collina e salire sul pendio scosceso al di là del corso dello Scamandro?
Bisognava cercare Troia altrove. L’antica città di Priamo non poteva sorgere sulle alture che dominavano il paese di Pinarbasi.
Ad appena un’ora di strada dall’Ellesponto sorge la collina di Hissarlik, l’ultimo promontorio dell’altopiano. È la collina più vicina al mare, che divide i corsi dello Scamandro e del Simoenta, esattamente come viene narrato dall’autore dell’Iliade. Lì doveva sorgere la città di Priamo e lì avrebbe scavato Schliemann!
L’11 ottobre 1871, avendo ottenuto il permesso dal governo turco, grazie in particolare all’intervento dell’ambasciata americana a Costantinopoli, Schliemann comincia la prima delle sue numerose campagne di scavi a Hissarlik. Tra il 1871 e il 1873 lavorerà per un totale di undici mesi sulla collina, aiutato dalla moglie Sofia, un’ateniese che è a sua volta appassionata lettrice di Omero, e da una squadra di cento-centocinquanta operai diretti da tre capomastri. Sofia Schliemann invece dirige una squadra di una trentina di operai.
L’epilogo è noto: sulla collina di Hissarlik Schliemann scoprì i resti della città di Troia, le porte Scee e il tesoro di Priamo. Il suo entusiasmo e la sua perseveranza aprivano un nuovo capitolo di storia: era nata l’archeologia omerica.
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi

lunedì 30 aprile 2007

Il mondo epico e la storia: la realtà riscoperta (1)

Abbiamo riscoperto l’eleganza dei palazzi cretesi. Abbiamo riscoperto la ricchezza di Micene e il sito di Troia. Tutto questo resta sorprendente. Ma tutto questo non ci ha insegnato niente del mondo omerico: ha soltanto consentito alla nostra immaginazione di sbizarrirsi più facilmente quando leggiamo i poemi. Se la maschera d’oro di Micene evoca con forza la “Micene piena d’oro” di Omero (Il., VII, 180; XI, 46; Od., 304), essa è, di fatto, di diversi secoli anteriore all’eroe d’Omero che l’ha così chiamata. Poter contemplare il sito di Troia e immaginarvi le scene dell’epopea conferisce a questa una consistenza più accentuata. Ma è un’illusione: gli spazi e i riferimenti non coincidono perfettamente. È possibile che Omero conoscesse il posto soltanto per sentito dire e che i dettagli si dovessero così piegare alla creazione poetica, e non il contrario. Poi, d’improvviso, abbiamo potuto leggere i documenti dei palazzi micenei, documenti del tempo di Agamennone. E si è creduto per un po’ di dover interpretare di nuovo Omero, per intero. Dopo, ci si è dovuti ricredere. Anche in questi casi era suggestivo e affascinante vedere il signore, l’anax, inserirsi così spesso nella realtà della storia. Ma i documenti decifrati ci hanno consegnato cose ben più prosaiche: conti, elenchi, tutta una burocrazia di cui non troviamo niente di simile nei poemi. Omero sembra non aver conosciuto questi regni così fortemente organizzati. Del resto è logico che le narrazioni epiche non ne siano state toccate. I documenti rivelano l’altra faccia della realtà. Invece di dimostrare che il mondo omerico era realmente esistito, ci dicono che questo è un mondo idealizzato, che appartiene all’opera epica. Talvolta, su queste tavolette si leggono gli stessi nomi degli eroi di Omero, come Achille (a Cnosso), come Ettore (a Pilo). Ma non si tratta degli eroi di Omero. Può darsi che questi eroi siano stati inventati dagli aedi e poi siano stati dati loro dei nomi allora in voga. Dopotutto, Ettore era troiano… Tra i documenti trovati e il contenuto dei poemi non c’è un legame più stretto di quello esistente tra la Canzone di Orlando e gli atti notarili dell’epoca del re Carlo.

Jacqueline de Romilly, Omero (1998)

domenica 29 aprile 2007

Un giudizio su Tolkien

"Tolkien ha avuto un ruolo nel panorama letterario europeo, anzi mondiale, del ventesimo secolo che ha fatto infuriare i critici. Ha semplicemente ignorato l'intera tradizione narrativa che ha regnato sovrana dal diciottesimo secolo, e cioè la tradizione del romanzo "realistico" e "psicologico". Egli è ritornato al più antico e nobile genere narrativo, ossia l'Epica. L'uomo cartesiano non ha le categorie necessarie per trattare con questo genere di cose, se non classificandole con superiorità "primitive" e "frivole". Per un cattolico, l'opera di Tolkien giunge come un fiume di limpida fresca acqua in una fetida e malsana palude, portando con sé tutte le glorie scomparse con l'avvento della modernità, come la maestosità, la solennità, l'ineffabilità, il timore reverenziale, la purezza, la santità, l'eroismo e la stessa gloria. Descartes e Hume avrebbero delle difficoltà a spiegare cos'è la gloria usando il loro vocabolario e i loro successori, tristi, non hanno la minima idea di ciò che è andato perduto. Tolkien forse ha reintrodotto i poveri figli della modernità alla Gloria".
Thomas Howard

sabato 28 aprile 2007

Heinrich Schliemann (3)

Nel 1858 Schliemann è ricco, comincia a pensare di ritirarsi dagli affari per dedicarsi interamente alla realizzazione del suo vecchio sogno e cercare di ritrovare le civiltà scomparse cantate da Omero. Ci vorranno dieci anni ancora prima del grande salto dal mondo degli affari a quello dell’archeologia. Nel frattempo viaggia intorno al globo e, sulla nave che lo porta dal Giappone a San Francisco, scrive il suo primo libro, La Cina e il Giappone. Finalmente, nell’aprile del 1868, sbarca a Corfù e poi a Itaca per tentare di ritrovare i resti del palazzo di Ulisse.
Gli abitanti del luogo chiamavano Ida il luogo presunto dove sorgeva il palazzo. È lì che Schliemann apre le sue prime trincee, nel punto dove Ulisse aveva probabilmente costruito il suo famoso letto, sotto l’ulivo gigante. Invano. A una profondità di sessanta centimetri circa trova la roccia. Nonostante la delusione, una scoperta lo rincuora un po’: all’interno di un piccolo recinto funerario circolare scopre una ventina di vasi, che però si spezzano nel tentativo di strapparli a un’argilla molto compatta. Il colore è ben conservato e, sempre secondo Schliemann, il loro aspetto generale lascia pensare che si tratti di reperti più antichi di quelli rinvenuti a Cuma e conservati al museo di Napoli.
In questo piccolo cimitero, oltre ai vasi, Schliemann rinviene alcuni frammenti di una spada di ferro, la lama piegata di un coltello sacrificale, un idolo d’argilla che raffigura una dea nell’atto di suonare il doppio flauto, una zanna di cinghiale e un manico fatto di fili di bronzo intrecciati.
Ci preme ricordare la frase di Schliemann contenuta in un volume sulla storia delle scritture egee: “Avrei dato cinque anni della mia vita per trovare un’iscrizione ma, purtroppo, non vi era nulla di simile in quel recinto”.
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia

giovedì 26 aprile 2007

Esiste un'epica oggi?

Che fine ha fatto l’epica dopo il 1600? E soprattutto: esiste ancora, al giorno d’oggi, una produzione letteraria che potremmo definire epica? Ragionando in termini di genere letterario, non possiamo che constatare la scomparsa dell’epos: non esiste più una forma di poesia solenne che affidi alla narrazione delle gesta di eroi e divinità tutti i complessi significati culturali veicolati, ad esempio, dall’Iliade o dall’Eneide. Ma se ci limitiamo a cercare la sopravvivenza solo di una parte dei caratteri dell’epos antico, scopriamo che essi sopravvivono tenacemente, spesso nelle forme più impensate.
Facciamo alcuni esempi. Sul piano dei contenuti, l’epos è – come abbiamo detto – la narrazione delle gesta di eroi, dotati di eccezionali qualità, che compiono eccezionali imprese. Queste imprese sono spesso a carattere “bellico”: consistono cioè nello scontro vittorioso dell’eroe contro nemici di ogni sorta (altri esseri umani, divinità, creature dotate di favolosi poteri). Data questa definizione dell’epica, un lettore dei nostri tempi non esiterebbe a definire epica la saga del Signore degli anelli, la fortunata trilogia di J. R. R. Tolkien: nel narrare l’eterna storia dello scontro tra le forze del Bene e le forze del Male, Tolkien attinge a piene mani dalla tradizione epica descrivendo viaggi avventurosi e irti di pericoli, creature magiche, mostri ripugnanti, aspre battaglie; gli eroi della trilogia si trovano più volte a compiere delle prove, che superano con il coraggio, l’astuzia o la forza fisica. Non mancano del resto i richiami formali all’epos antico: i personaggi creati da Tolkien, siano essi grandi re o piccoli hobbit, sono tutti corredati di una ben precisa genealogia, che l’autore ricostruisce minuziosamente e di cui si serve con movenze “formulari” (“Aragorn, figlio di Arathorn, sovrano di Gondor…”).
E ancora: si sente spesso parlare di epopea del Far-West per descrivere la storia della conquista, da parte dei coloni europei, delle immense distese americane un tempo abitate dai pellerossa. Questo spaccato della storia ci è forse più noto dal mondo del cinema che non dalla letteratura. Dai film western di John Ford fino al più recente Balla coi lupi di Kevin Kostner, lo spettatore non stenta a riconoscere anche in questo caso alcuni “ingredienti” dell’epica: la presenza di eroi, il tema della guerra, i grandi spazi, lo spirito di sacrificio e di avventura, il coraggio, il tono solenne della narrazione (in questo caso, diremmo della sceneggiatura), la celebrazione di un momento avvertito come cruciale per la storia di un popolo.
D. Puliga, C. Pazzini, La memoria e la parola, Le Monnier



Gandalf

mercoledì 25 aprile 2007

Tirteo, un altro poeta elegiaco imitatore di Omero

Tirteo è uno dei grandi lirici della Grecia arcaica. Originario di Mileto, si trasferì a Sparta, dove certamente operò nel VII secolo al tempo delle guerre messeniche.
La sua poesia è essenzialmente guerresca. Celebra il valore dei combattenti ed ha numerosi punti di contatto con l’epica di Omero.
Ecco il testo di una delle sue elegie, probabilmente la più nota. I temi sono omerici: il valore in guerra, il coraggio, l’onore e il disonore.

“Per un uomo valoroso è bello cadere morto
combattendo in prima fila per la patria;
abbandonare la propria città e i fertili campi
e vagare mendico è di tutte la sorte più misera,
con la madre errando e con il vecchio padre,
con i figli piccoli e la moglie.
Sarà odioso alla gente presso cui giunge,
cedendo al bisogno e alla detestata povertà:
disonora la stirpe, smentisce il florido aspetto;
disprezzo e sventura lo seguono.
Se, così, dell'uomo randagio non vi è cura,
né rispetto, neppure in futuro per la sua stirpe,
con coraggio per questa terra combattiamo, e per i figli
andiamo a morire, senza più risparmiare la vita”.
---
Ed ecco come commenta questa elegia lo studioso Werner Jaeger.

“In questa elegia alla morte gloriosa sul campo di battaglia è contrapposta la miseria della vita raminga, quale è sorte inevitabile dell’uomo che in guerra non compì il suo dovere ed è quindi costretto ad abbandonare la patria. Egli va errando per il mondo con padre e madre, con la sua donna e i figlioletti. Per tutti coloro che accosta, egli, così povero e mendico è un estraneo, guardato con occhio ostile. Egli macchia la sua stirpe e disonorail suo nobile sembiante; lo attende la sorte del reietto, l’abiezione. Qui la logica inesorabile dei diritti dello Stato sugli averi e sul sangue dei suoi membri è raffigurata con incomparabile vigoria ed evidenza. La sorte crudele dei profughi in paese straniero è rappresentata altrettanto realisticamente quanto l’onore reso al prode in patria. Non fa differenza immaginarcelo sbandito, quando la situazione eccezionalmente grave dello Stato esigeva davvero temporaneamente pene siffatte contro chi fuggiva in faccia al nemico, oppure pensare all’esilio volontario di colui che vuole sfuggire al servizio delle armi e vive quindi da avventizio in un’altra città. L’abbinamento di altezza ideale e di forza brutale che caratterizza lo Stato in questi quadri, integrantisi reciprocamente, lo avvicina alla natura degli dèi, e così fu infatti sentito dai Greci. Anche il fondare la nuova virtù civile sul bene collettivo non è, per il pensiero greco, mero utilitarismo di natura materiale; questa comunità, la polis, poggia invece su un fondamento religioso. Di fronte all’areté dell’epos il nuovo ideale politico dell’areté è, appunto, anche espressione di un mutato atteggiamento religioso dell’uomo. Lo Stato diviene compendio di tutte le cose umane e divine”.

martedì 24 aprile 2007

Heinrich Schliemann (2)

Gli anni passano. Il piccolo Schliemann cresce e sviluppa un incredibile senso degli affari. Nel 1847 lo ritroviamo commerciante all’ingrosso, nel 1852 apre a Mosca una succursale della sua impresa, specializzata nella vendita dell’indaco, un colorante blu estratto dalla macerazione delle foglie di alcune indigofere, che oggi si ottiene attraverso sintesi chimica. Il 4 ottobre scoppia la guerra di Crimea. La Russia si schiera contro una coalizione formata da Turchia, Gran Bretagna, Francia e Regno Sardo. I porti russi sono tutti sottoposti a embargo e bloccati. Tutte le merci destinate a San Pietroburgo vengono forzatamente deviate verso i porti prussiani di Konisberg e di Memel e di qui convogliate via terra verso la loro destinazione. Molte centinaia di casse di indaco, spedite da Amsterdam agli agenti di Schliemann a Memel, dovevano raggiungere San Pietroburgo. Un incendio terrificante devastò completamente Memel e, grazie a un’incredibile fortuna, i soli magazzini di Schliemann furono risparmiati dalla catastrofe. I prezzi dell’indaco salirono vertiginosamente e Schliemann si lanciò in una speculazione spregiudicata su tutti i materiali e i prodotti di cui i belligeranti avevano urgente necessità. Così si dedicò al traffico dell’indaco ma anche a quello del legname, delle armi, dello zolfo e del piombo. In un anno riuscì a raddoppiare il suo capitale.
Non appena si cominciò a parlare di pace, nel 1856, Schliemann si mise a studiare il greco moderno. Dopo solo tre settimane, a quanto narra egli stesso, era in grado di capiare e di parlare questa lingua tutt’altro che facile. Dal greco moderno passò al greco antico e, sempre secondo il suo racconto, dopo tre mesi era in grado di tradurre gli autori antichi, in particolare Omero.
La descrizione del metodo seguito da Schliemann per imparare le lingue antiche e quelle moderne merita, a nostro parere, di essere meditata ancora oggi. Secondo le parole dello stesso Schliemann:

"Studiai soltanto i verbi regolari e irregolari. Non persi un solo minuto del mio tempo prezioso ad apprendere le regole grammaticali. Infatti, avevo notato che nessuno tra quei ragazzi torturati durante otto anni e forse più dai professori di liceo, che tentano invano di inculcare nozioni grammaticali elementari, era in grado di scrivere un tema o una semplice lettera in greco senza cospargerla di errori mostruosi. Ne avevo quindi dedotto che il metodo seguito nelle scuole era totalmente sbagliato. L’unico metodo per imparare bene la grammatica è uno stretto contatto col testo attraverso la lettura attenta della prosa classica e l’imparare a memoria i passi più significativi dei buoni autori".

Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia

domenica 22 aprile 2007

Una svolta nella questione omerica: gli studi di Milman Parry

Una svolta decisiva: gli studi di Milman Parry


Per tutto il corso dell’Ottocento la questione omerica si mosse su questa linea, che presentava un limite evidente nella posizione del tutto marginale in cui essa relegava il problema dell’oralità. Wolf e i suoi successori – cui pure siamo debitori sul piano linguistico di moltissime osservazioni di grande acume – studiavano infatti i poemi omerici come se fossero stati il frutto di una composizione scritta, attribuendo alla scelta volontaria dei diversi “autori” che si nascondevano dietro al testo i fenomeni e gli esiti che si spiegano invece alla luce di una composizione orale.
Una svolta decisiva venne in questo senso dagli studi di Milmam Parry (1928). Parry riprese il metodo della “ricerca sul campo” inaugurato da Robert Wood nel Settecento: si recò in Iugoslavia per studiare le tecniche dei cantori locali, registrandone su nastro le performances, e per capire come si erano originati i poemi omerici cercò di calarsi in uno scenario antropologico che fosse vicino a quello antico. In effetti, il viaggio di Parry funzionò come una sorta di macchina del tempo: i cantori della penisola balcanica dei primi decenni dei 1900 vivevano in un mondo che aveva mantenuto tratti fortemente arcaici, e continuavano, come i loro antichi predecessori, a comporre e recitare in assenza di scrittura. Il risultato maggiore delle ricerche di Parry sta senza dubbio nelle sue osservazioni sulla formularità: la fissità di interi versi (i versi formulari) o di singole espressioni (in particolare, Parry studiò l’uso degli epiteti).
La questione omerica ha preso dopo Parry nuove direzioni. Da un lato si sono intensificati gli studi sulla tecnica formulare e sulle leggi che regolano la composizione orale (importante in questo campo l’opera di un discepolo di Parry, Albert Lord); dall’altro, si è iniziato sempre più a rivolgere l’attenzione all’Iliade e all’Odissea sul piano antropologico, come “libri di cultura” dei Greci. La nuova sfida della questione omerica non risiede più dunque nel cercare di dare un volto a Omero, cantore di cui restano nell’ombra tanto l’identità quanto l’effettivo apporto nella composizione dei poemi, ma piuttosto nello scoprire quello che la poesia omerica è in grado di rivelare sulla vita, i valori e le credenze degli antichi Greci.


D. Puliga, C. Pazzini, La memoria e la parola, Le Monnier


Un'immagine tratta dall'archivio fotografico di Albert Lord. Ingrandite e osserverete da vicino un moderno Omero.

venerdì 20 aprile 2007

Heinrich Schliemann (1)

Le civiltà dell’antico Egeo erano scomparse senza lasciare traccia e l’unico indizio, per gli ellenisti e gli amanti delle cose del passato, della preistoria della Grecia e dell’Egeo era legato ai racconti degli autori antichi, in particolare al racconto omerico. Perciò, grande è il merito di chi, per primo, è riuscito a dischiudere le porte di questo mondo misterioso e dimenticato.
L’artefice di quest’impresa si chiamava Heinrich Schliemann. Nato il 6 gennaio 1822 a Neubukow nel Mecklembourg-Schwerin, in Germania, Schliemann fu, sin dalla più tenera età, attratto dalle fiabe e dai racconti leggendari che riguardavano la sua regione, come, ad esempio, la storia della bella fanciulla che a mezzanotte usciva dalle profondità del vicino stagno con, nelle mani, una coppa d’oro; o ancora quella del cavaliere maledetto che avrebbe sepolto la sua unica figlia in una culla d’ora nascosta sotto un tumulo vicino alla casa degli Schliemann.
Per il Natale del 1829 il padre di Schliemann, un pastore protestante, offre in regalo al figliolo un libro che ha per titolo Storia Universale per bambini, di un certo Georg Ludwig Jerrer.
Su una delle tavole del libro si può ammirare una scena che colpisce il piccolo lettore. Vi si vede la città di Troia in fiamme presa d’assalto dai greci dopo dieci lunghi anni d’assedio. In piccolo Schliemann chiede al padre dove si trovi questa città favolosa e s’informa di quanto rimane dei suoi splendidi palazzi. Con un sorriso sulle labbra il padre risponde che si tratta di una leggenda inventata dai poeti e che Troia non è mai esistita. Il bambino è dispiaciuto e non vuole credere alle parole del padre. Con tono deciso risponde: “Non è vero! Un giorno io ritroverò i resti della città di Priamo”.
-
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia

mercoledì 18 aprile 2007

La musica nell'Iliade e nell'Odissea


Della musica della Grecia antica si sa pochissimo. Abbiamo soltanto pochissimi testi musicali, frammentari e problematici dal punto di vista interpretativo e della trascrizione. Più interessanti sono le fonti letterarie, che testimoniano la grande importanza che aveva la musica nella Grecia antica. Certamente già nel secondo millennio la pratica musicale era molto sviluppata (nella foto statuetta raffigurante un suonatore di lira, esempio di arte cicladica).
Anche l'Iliade e l'Odissea forniscono agli studiosi testimonianze importanti.

Leggiamo cosa dice in proposito Giovanni Comotti, studioso di metrica, ritmica e musica greca.


"Nell’Iliade i rappresentanti degli Achei sono inviati al santuario di Apollo a Crisa, sulla costa dell’Asia Minore, presso l’odierna Edremit, per far cessare la pestilenza che aveva colpito il loro esercito sotto le mura di Troia: dopo aver restituito la figlia al sacerdote Crise e dopo aver compiuto il sacrificio espiatorio, placano l’ira del dio intonando in coro il peana (Il. I 472 sgg.). Anche Achille canta accompagnandosi con la phorminx, lo strumento a corda degli aedi, per alleviare la pena del suo animo (Il. IX 185 sgg.). nelle scene di vita agreste e cittadina raffigurate da Efesto sullo scudo di Achille, suonatori e cantori accompagnano le cerimonie nuziali, il lavoro dei campi, le danze dei giovani (Il. XVIII 490 sgg.). Nell’Odissea hanno un notevole rilievo le figure dei citarodi Femio di Itaca e Demodoco di Corcira: sono veri e propri artigiani del canto, la cui opera è indispensabile perché i banchetti siano degni della nobiltà dei convitati o per accompagnare le danze atletiche durante la festa popolare dei Feaci. Essi hanno un repertorio di canti ampio e collaudato, che i loro abituali ascoltatori conoscono ed apprezzano (Od. I 377 sgg.; VIII, 487 sgg.): sono onorati come depositari del sacro dono delle Muse, l’ispirazione, e come artefici capaci di esporre con proprietà ed efficacia gli argomenti che le dee stesse suggeriscono".

Giovanni Comotti, La musica nella cultura greca e romana, EDT

domenica 15 aprile 2007

Le tragedie di Foscolo: ancora un commento arguto di Monti

In pochi ricordano che Ugo Foscolo scrisse anche 3 tragedie: il Tieste, l'Aiace e la Ricciarda. Sono opere solitamente dimenticate, perchè giudicate artisticamente non riuscite (soprattutto se paragonate ai capolavori foscoliani). Evidente imitatore delle tragedie di Alfieri, al Foscolo mancava lo spirito del grande tragediografo.

L'Aiace ha per tema la contesa nata trai condottieri greci sotto le mura di Troia per il possesso delle armi di Achille ucciso in combattimento.

Non poteva mancare il commento dell'amico-nemico Vincenzo Monti, che a proposito dell'Aiace scrisse questo breve epigramma:

Per porre in scena il furibondo Aiace
Il fiero Atride e l’Itaco fallace
Gran fatica Ugo Foscolo non fè:
Copiò se stesso e si divise in tre.

giovedì 12 aprile 2007

Callino e Omero

Callino e Omero

Callino interpreta a modo suo motivi dell’Iliade. Egli ammonisce i giovani della sua patria a non abbandonarsi tranquillamente all’ozio come in tempo di pace. La guerra impegna tutto il paese – egli dice – partite dunque contro il nemico. Anche morente il guerriero deve per l’ultima volta vibrare la lancia, poiché è cosa onorevole e splendida combattere contro il nemico, per il proprio paese, per i propri figli e la fedele consorte. E la morte verrà quando le dee del fato la prepareranno filando … Non è concesso all’uomo evitare la morte, neppure se discenda da progenitori immortali. Spesso qualcuno si sottrae al combattimento e ritorna a casa, e a casa lo coglie la morte. E costui non avrà onore.
La principale ragione per cui si raccomanda qui di combattere per il proprio paese, dunque per un vantaggio pià ampio del vantaggio personale, è che, in tal modo, anche la propria famiglia viene difesa dai nemici. Questo naturalmente è un motivo omerico, ma in certi particolari Callino va più in là di Omero. Ettore dice ai Troiani nella battaglia (Il. XV 494 sgg.): “Ora combattete tutti contro le navi dei Greci. Chi è colpito e cade, dovrà morire. Non è una cosa indegna per lui morire difendendo la patria. Ma la sua donna e i suoi figli avranno sicurezza per il futuro, e così la casa e i beni, quando i Greci saranno ritornati in patria”. Ettore dice: “non è cosa indegna difendere la propria patria”, e Callino: “è una cosa gloriosa e splendida combattere per la propria patria”. Al posto della parola “difendere” abbiamo qui la parola “combattere”, e il valore della lotta viene soltanto qui degnamente riconosciuto …
Inoltre Callino raccomanda l’eroismo in nome della gloria e del timore della vergogna; in ciò Callino segue Omero. Egli ci porta però altre ragioni, similmente derivate da motivi dell’Iliade. “La morte viene quando il destino lo vuole. Spesso uno è sfuggito alla battaglia ed è poi morto a casa”. Ciò si riconnette a quanto dice Ettore in una situazione però del tutto diversa. Quando Ettore prende congedo da Andromaca prima di partire per la battaglia dice (Il. VI 486): “Non rattristarti troppo il cuore: nessuno mi farà scendere all’Ade contro la volontà del fato (al di là del fato). Poiché nessuno, vile o pauroso che fosse, è mai sfuggito, dappoichè nacque, al proprio destino”. È tutt’altra cosa se uno dice “bisogna pur morire una volta”, come dice Ettore pensando al combattimento in cui troverà la morte, o se ci si richiama a questa legge della vita per esortare un altro all’eroismo.

B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. V. Degli Alberti, Torino, Einaudi, 1951

martedì 10 aprile 2007

La questione omerica (Salvatore L.)

Fin dall’antichità ad Omero ( IX secolo a.C.) vengono attribuiti due poemi: l’Iliade e l’Odissea . Di Omero però si sa pochissimo. Tutte le discussioni sulla sua esistenza portano il nome di QUESTIONE OMERICA .

Alla base della questione omerica ci sono due teorie:
- la teoria tradizionalista: Omero è il vero e unico scrittore dei due poemi;
- la teoria separatista: Omero non è esistito e i due poemi sono un insieme di canti uniti da più poeti–cantori.

Ultimamente però è nata una nuova teoria chiamata teoria neo-analista: Omero è esistito e unisce una serie di canti formando i due poemi.

IN EPOCA ANTICA
Ad affrontare il problema per primi furono i grammatici alessandrini con Aristarco (III – II secolo a . C.) , che divisero l’Iliade e l’Odissea in 24 canti ognuno. La loro linea è tradizionalista

Ma due grammatici alessandrini – Senone ed Ellanico – formularono una nuova ipotesi e cioè che Omero avesse scritto solo l’Iliade.

Nel I d. C. il trattato anonimo del Sublime attribuì l’Iliade ad un Omero più giovane e l’Odissea ad un Omero più vecchio.



IN EPOCA MODERNA

Nel 1715 il francese D’aubignac sostiene che l’Iliade e l’Odissea sono una raccolta di canti composti da vari poeti e Omero è un personaggio inventato

Gian Battista Vico scrive la Scienza Nuova nel 1725 e dedica il terzo libro alla questione omerica: “La Discoverta del vero Omero”. Trova che ci sono contrastanti descrizioni nella vita dei Greci rispetto al poema e quindi sostiene che l’Iliade e l’Odissea sono stati scritti da più autori e che Omero è il simbolo della Grecia.

Friedrich Wolf scrive “Introduzione ad Omero” in cui sostiene che i poemi non sono frutto di un solo poeta ma il risultato di tanti canti separati tramandati oralmente e riuniti . Wolf diventa il padre della dottrina analitica

SALVATORE L.

lunedì 9 aprile 2007

Callino: un poeta elegiaco imitatore di Omero

Callino di Efeso è il primo autore di elegie in lingua greca a noi noto. Delle sue elegie guerresche, datate alla metà del VII secolo, ci restano solo quattro frammenti.
Il più importante di questi è un’esortazione a combattere rivolta ai suoi concittadini. Callino imita fortemente Omero, sia nei temi che nei toni.
Vi riporto qui sotto il frammento citato e quindi un breve commento di un noto studioso.
---
Giovani, e fino a quando inerti? Quando avrete un cuore?
Non vi fa vergognare dei vicini
tanto lassismo? State qua, seduti, come in pace:
e tutto è nella morsa della guerra.

L’ultimo strale si scagli morendo.
Onore e lustro all’uomo combattere i nemici
per la sua terra, per la moglie e i figli.
Ove lo stame delle Parche tocchi il segno,
allora sarà morte. Avanti, dunque,
lancia in pugno, e nel cuore palpiti gagliardi
sotto lo scudo, dalla prima zuffa.
Chè scampare alla morte non è dato all’uomo,
neppure se immortale sia la stirpe.
Sfugge alla mischia, ai dardi che rimbombano, ritorna:
fato di morte lo sorprende in casa.
Ma il popolo non l’ama e non lo cerca; il prode,
se muore, è pianto da piccoli e grande;
la nostralgia di tutta la sua gente lo circonda,
mentre, se vive, è come un semidio.
S’aderge innanzi agli occhi come torre:
è uno, ma, per quello che fa, vale per molti.
(trad. Pontani)

---

“In questi versi si vede chiaramente donde traesse origine l’elegia come forma d’arte, quali che potessero essere state le sue radici ultime: il contenuto e la forma linguistica sono talmente determinati dall’epos che in un certo senso, come ha detto il Wilamowitz, l’elegia può essere veramente considerata una diramazione. In fondo, era inevitabile che la poesia in ritmi dattilici impiegasse tutto il patrimonio stilistico che era offerto dalla poesia omerica e che tutti avevano nell’orecchio. Nello stesso senso influiva il fatto che nel distico elegiaco l’esametro ha la stessa struttura che nell’epica. Ma anche sul piano ideale Callino appartiene al mondo di Omero”.
(A. Lesky)

martedì 3 aprile 2007

Contenuto dell'Iliade

L'Iliade è un lungo poema di 15696 versi. Il titolo (Iliàs) vorrebbe dire "vicenda d'Ilio"; e farebbe pensare a un racconto completo della guerra di Troia, dall'inizio di essa alla caduta della città. Invece, l'Iliade comincia col decimo anno della guerra; racconta un episodio solo della guerra: l'ira di Achille. Nella protasi del poema, Omero invoca la Musa perché canti l’ira funesta di Achille, che cagionò dolori infiniti agli Achei e gettò tanti eroi nell’Ade, da quando vennero a contesa l’Atride Agamennone, capo della spedizione, e Achille, l’eroe più valoroso. Il poema non finisce con la presa di Troia, nemmeno con la morte di Achille; ma con la fine dell’ira e con le conseguenze del ritorno dell’eroe alla battaglia: cioè con la morte di Ettore, il più forte eroe troiano, i giuochi funebri in onore di Patroclo, l’amico prediletto di Achille, la restituzione del cadavere di Ettore al padre, e i funerali dell’eroe troiano. Poiché con la morte di Ettore il destino di Troia è segnato.
L’Iliade è, dunque, veramente un’Iliade, e, insieme, un’Achilleide (un racconto e una celebrazione delle geste dell’eroe Achille): cioè, un’Achilleide legata indissolubilmente a un’Iliade, un episodio che non fa mai perder di vista l’insieme. Nell’aver saputo legare le parti in un tutto, contemperando opportunamente unità e varietà, è un’architettura sapiente, che rivela l’arte raffinata del poeta. Con questo, non si nega, naturalmente, che alcuni canti o parti di canti, specialmente quando si riferiscono non ad Achille, ma alla guerra, possano essere stati più antichi di Omero, e soltanto leggermente rielaborati da lui, o, invece, aggiunti posteriormente.
Comunque, l’Iliade quale noi l’abbiamo ha una sua unità intima e profonda. E Achille è il vero protagonista. Assente durante la maggior parte del poema, egli è sempre presente allo spirito del poeta, e finisce per impressionare, con la sua lontananza, l’animo del lettore assai più che se fosse sempre nella mischia.

Gennaro Perrotta, Disegno storico della letteratura greca

sabato 31 marzo 2007

Epica, lirica, tragedia

Èpos è antica parola greca, giunta intatta fino ai nostri giorni. Può avere diversi significati, tutti in connessione fra loro, ma indica anzitutto il verso tipico dei poemi antichi, l’esametro, così detto perché era composto da sei misure (dal greco esa, “sei” e métros). Greci e Latini lo adoperavano per cantare le gesta degli dei e degli eroi, per celebrare le origini di una stirpe o di un popolo. L’Iliade e l’Odissea di Omero, l’Eneide di Virgilio, il poema nazionale romano, il De rerum natura di Lucrezio che spiega le origini e la natura del mondo, i Fasti di Ovidio sulle ricorrenze più importanti in Roma ecc. sono tutti poemi epici, composti in esametri.
Epopea, parola che viene sempre dal greco (épos + poiéo, “faccio”, prima persona del verbo “fare”, quindi “far versi, comporre poemi”), significa letteralmente “narrazione in versi di gesta eroiche”, leggendarie o no, comunque sempre abbellite e idealizzate dall’artae del poeta. Si può parlare di epopea greca, quella che qui trattiamo con particolare riferimento ai poemi epici attribuiti a Omero; di epopea romana o latina (Virgilio, Ovidio, ma anche Nevio, Lucano ecc.); di epopeea medievale cavalleresca che narra le battaglie fra cristiani e saraceni (Carlo, Agramante, Orlando e i paladini di Francia, Angelica, Armida ecc.) o le saghe di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Infine, si parla di epopea moderna quando entrano in campo Torquato Tasso con la Gerusalemme Liberata, l’inglese John Milton con il Paradiso Perduto ecc. Ma nulla vieta di parlare di un’epopea spaziale se pensiamo alla Trilogia della Fondazione di Isaac Asimov o a 2001 Odissea nello spazio di Arthur C. Clarke – ecco che rispunta il concetto di “odissea”, ma qui, attenzione, siamo alla prosa o perfino al cinema.
Per restare nel campo della poesia, all’epica si contrappone la lirica, che esprime sentimenti individuali, e infine la tragedia, che mette in scena episodi e personaggi delle epopee puntando sulla recitazione, sugli attori, i dialoghi, i cori, con autori come Eschilo, Sofocle, Euripide (greci), Seneca (latino), Corneille e Racine (francesi), Shakespeare (inglese), Alfieri e Manzoni (italiani) e via via fino ai nostri giorni.

Jacqueline de Romilly, Omero (1998)

venerdì 30 marzo 2007

Il giudizio di Paride (Alessia M.)


Cliccare sull'immagine per ingrandire.

ALESSIA M.

mercoledì 28 marzo 2007

La vita di Foscolo: dalla nascita al 1799

Ugo Foscolo (in realtà fino al 1795 il suo nome è Niccolò) nasce nell’isola greca di Zante, da padre veneziano e madre greca.
Nel 1785 si trasferisce con la famiglia a Split (Spalato), in Jugoslavia. Già qui rivela un carattere ribelle: a meno di dieci anni viene espulso dal seminario per aver rotto la testa a due professori e poi per un’altra intemperanza viene condannato ad un giorno di carcere.
Nel 1788 muore il padre: la madre si trasferisce con due figli a Venezia; Ugo va a Zante, dove è affidato ad una zia.
Dal 1792 si trasferisce a Venezia. Qui si dedica allo studio dei grandi autori antichi e moderni e inizia ad entusiasmarsi per gli ideali libertari e egualitari promossi dagli illuministi e dalla rivoluzione francese. I suoi autori prediletti sono Rousseau, Parini ed Alfieri.
Entra a far parte del salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, una piacente dama, di cui subisce il fascino.
Compone la tragedia Tieste, di ispirazione antitirannica, che riscuote molto successo ma che gli costa una serie di interrogatorii da parte della polizia.
Quando, dopo la discesa di Napoleone in Italia, scrive l’Ode a Bonaparte liberatore. Poi quando anche a Venezia si instaura una repubblica giacobina, egli ricopre cariche pubbliche. Ma dopo il trattato di Campoformio (Napoleone cede Venezia all’Austria) rimane deluso e inclina al pessimismo.
Si rifugia quindi a Milano, dove conosce il vecchio Giuseppe Parini, che definirà in seguito “il personaggio più dignitoso” mai conosciuto. In seguito diventa amico anche di Vincenzo Monti e si innamora della sua bellissima moglie Teresa Pikler, senza essere ricambiato.
Quindi si reca a Bologna dove inizia a scrivere il romanzo epistolare a sfondo autobiografico Ultime lettere di Jacopo Ortis, in cui confluiranno gran parte delle vicende della vita dello scrittore.
Nel 1799 si arruola come volontario nella Guardia Nazionale per difendere la Repubblica Cisalpina, attaccata dagli austro-russi; combatte valorosamente ma è ferito per ben due volte.

martedì 27 marzo 2007

Un'altra accusa di Foscolo a Monti

Tornando al litigio tra Foscolo e Monti, vi riporto questa celebre frase che il primo indirizzò al secondo. Curioso il fatto che Foscolo, accusato in quell'epigramma che ho pubblicato in precedenza di essere falso, accusi a sua volta Monti di essere menzognero.

"Discenderemo entrambi nel sepolcro, voi più lodato certamente, io forse più compianto; il vostro epitaffio sarà un elogio; sul mio si leggerà che, nato e cresciuto tra tristi passioni, ho serbato la mia penna vergine di menzogne"

Ugo Foscolo

domenica 25 marzo 2007

La questione omerica (Pierpaolo C.)

Non si sa esattamente chi abbia scritto l’Iliade e l’Odissea. Si pensa sia stato Omero. Le teorie e le ipotesi che tentano di dare una spiegazione a questo problema costituiscono la cosiddetta Questione Omerica.
Le ipotesi si possono dividere in tre gruppi:
TRADIZIONALISTA (unitaria): i poemi sono stati composti da un unico autore (Omero). Il primo (Iliade) scritto in età giovanile ed il secondo (Odissea) scritto in età posteriore, quando era divenuto cieco).
ANTITRADIZIONALISTA (separatista o analista): i poemi sono frutto di un lavoro di accostamento di più canti separati, ad opera di diversi cantori, messi insieme.
NEOANALISTA: Omero utilizzò e combinò tutti i canti che venivano tramandati a voce.

---

Ecco un elenco dei maggiori esponenti di ognuna delle tre teorie:

III-II sec. a.C.
I grammatici alessandrini (e soprattutto Aristarco) attribuirono l’opera ad Omero e la divisero in 24 parti.
III-II sec. a.C.
Due grammatici alessandrini, Senone ed Ellenico, dissero che Omero scrisse solo l’ Iliade.
I sec. d.C.
Trattato del Sublime – Anonimo (?)
Attribuì l’ Iliade ad un Omero giovane e l’ Odissea ad un Omero più vecchio e maturo.

1715
Abate D’Aubignac
Disse che l’Iliade e l’Odissea furono stati composti da vari autori e che Omero è solo un personaggio inventato.
XVIII secolo
Giambattista Vico: “La discoverta del vero Omero
Afferma che Omero non esiste e che l’ Iliade e l’ Odissea sono opere collettive (scritte da più autori).
1795
Friderick August Wolf
Scrive un’Introduzione ad Omero sostenendo che i Poemi sono frutto dell’ unione di più canti separati e tramandati oralmente. Pone le basi scientifiche per una dottrina analitica dello studio dei Poemi.

PIERPAOLO C.

sabato 24 marzo 2007

Rubens: il giudizio di Paride

Questa tela fu dipinta da Rubens (1577-1640) nell'ultima fase della sua vita, tra il 1635 e il 1638.
Sulla sinistra Era, Atena e Afrodite brillano su un fondo scuro. Sulla destra Mercurio e Paride, che ha il pomo in mano, su un cielo più sereno.
La prescelta è Venere, che sembra già sorridere per il premio ricevuto.

venerdì 23 marzo 2007

Il giudizio di Paride (dalle Fabulae di Igino)

"Quando Teti sposò Peleo, si dice che Giove abbia invitato al banchetto tutti gli dèi tranne Eris, cioè la Discordia, che, dopo essersi presentata ugualmente e non essendo ammessa al banchetto, dalla porta gettò fra i convitati un pomo, e disse che lo prendesse colei che era la più bella. Giunone, Venere e Minerva iniziarono a rivendicare ciascuna per sè la maggiore avvenenza, e tra di loro nacque una gran lite. Allora Giove ordinò a Mercurio di accompagnare le tre litiganti sul monte Ida da Alessandro Paride e di comandare che lui giudichi. A costui Giunone promise che lo avrebbe regnato su tutte le terre, e che sarebbe stato il più ricco di tutti gli altri, se avesse giudicato a favore di lei. Minerva promise al giovane che, se fosse stata proclamata vincitrice, sarebbe stato il più forte tra gli uomini ed esperto in ogni arte. Venere, invece, promise di dargli in moglie Elena, figlia di Tindaro, la più bella di tutte le donne. Paride preferì l’ultimo dono ai precedenti, e giudicò che Venere era la più bella; perciò Giunone e Minerva furono nemiche dei Troiani. Per l’incitamento di Venere, Alessandro portò Elena da Sparta, dall’ospite Menelao, a Troia, e la sposò con due serve, Etra e Tiside, che Castore e Polluce gli avevano dato come schiave, un giorno regine."
---
Iovis cum Thetis Peleo nuberet ad epulum dicitur omnis deos convocasse excepta Eride, id est Discordia, quae cum postea supervenisset nec admitteretur ad epulum, ab ianua misit in medium malum, dicit, quae esset formosissima, attolleret. Iuno Venus Minerva formam sibi vindicare coeperunt, inter quas magna discordia orta, Iovis imperat Mercurio, ut deducat eas in Ida monte ad Alexandrum Paridem eumque iubeat iudicare. Cui Iuno, si secundum se iudicasset, pollicita est in omnibus terris eum regnaturum, divitem praeter ceteros praestaturum; Minerva, si inde victrix discederet, fortissimum inter mortales futurum et omni artificio scium; Venus autem Helenam Tyndarei filiam formosissimam omnium mulierum se in coniugium dare promisit. Paris donum posterius prioribus anteposuit Veneremque pulcherrimam esse iudicavit; ob id Iuno et Minerva Troianis fuerunt infestae. Alexander Veneris impulsu Helenam a Lacedaemone ab hospite Menelao Troiam abduxit eamque in coniugio habuit cum ancillis duabus Aethra et Thisadie, quas Castor et Pollux captivas ei assignarant, aliquando reginas.

Igino, Fabulae, XCII

giovedì 22 marzo 2007

Il giudizio di Paride (Luna K.)




Cliccare sulle immagini per visualizzare al meglio gli schemi.



LUNA K.

Dante, Virgilio e Omero nel Limbo

Dante incontra Omero nel IV canto dell’Inferno.
Ci troviamo nel Limbo, una zona dell’Inferno in cui sono puniti coloro che non furono battezzati (“non ebber battesmo”), sia prima che dopo la venuta di Cristo.
Si tratta quindi di uomini che non peccarono realmente (“ei non peccaro”). Per questo motivo non subiscono una pena materiale, ma solo morale: desiderare eternamente la vista di Dio, senza speranza di essere esauditi.
Tra questi spiriti Dante trova anche quattro grandi poeti dell’antichità: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano.
Dante è sempre accompagnato da Virgilio, autore dell’Eneide, il più grande poema epico della latinità. Del resto anche Virgilio, non battezzato, è un’anima del Limbo.
Grande è il dispiacere di Dante nel venire a conoscenza che molti uomini di gran valore sono condannati a soffrire nel Limbo.

Gran duol mi prese al cor quando lo ‘ntesi
Però che gente di molto valore
Conobbi che ‘n quel limbo erano sospesi.

Il nostro poeta viene in seguito invitato a far parte della schiera e si ritrova quindi ad essere “sesto tra cotanto senno”.

Dante non conosceva il greco. Quindi trasse l’ammirazione per Omero leggendo frammenti di autori latini.
Omero è raffigurato con la spada per due motivi: perché scrisse di guerra e perché capo della schiera dei poeti.

martedì 20 marzo 2007

Ugo Bassville

Si possono leggere molte interessanti notizie su Ugo di Bassville in questa pagina di wikipedia.
Degno di nota il fatto che Bassville avesse un atteggiamento molto ostile nei confronti del Papa e della religione cattolica.
Subì l'aggressione che gli costò la vita nel pieno centro storico di Roma, in via del Corso.
Sembrano esserci due grafie per indicare il nostro personaggio: Bassville e Basville. I risultati delle ricerche sul web dipendono da quale grafia viene inserita nel motore di ricerca.

La Bassvilliana di Vincenzo Monti

La Bassvilliana è un poema incompiuto in terza rima scritto da Vincenzo Monti in onore del rivoluzionario Ugo Bassville, segretario della legazione francese a Napoli, ucciso dal popolo a Roma.
Il poeta immagina che Bassville si penta dopo aver visto gli orrori della Parigi agitata dalla violenza rivoluzionaria. Le immagini sono talmente truculente che in molti avvicinarono la Bassvilliana alla Divina Commedia (anche il metro è lo stesso). E il Monti fu addirittura chiamato "Dante redivivo".
Il poema di Monti è in realtà ben lontano dalle vette artistiche raggiunte della Commedia dantesca.

sabato 17 marzo 2007

Monti risponde a Foscolo

Abbiamo visto che Foscolo e Monti ruppero il loro rapporto di amicizia. Molti attribuirono i motivi della lite proprio alla traduzione dell'Iliade di Omero, che Monti completò e Foscolo invece abbozzò appena. Foscolo sarebbe stato quindi invidioso del Monti.
Ma di questo non possiamo essere certi.
Certo è invece che Foscolo criticò e derise Monti per aver tradotto l'Iliade senza conoscere il greco e attingendo da altre traduzioni. E dedicò a lui quel notissimo epigramma (che in realtà qualche studioso oggi non attribuisce più a Foscolo):

Questi è Vincenzo Monti cavaliero,
gran traduttor dei traduttor d’Omero.


Ma Monti, abilissimo versificatore, rispose con un epigramma altrettanto ironico e se vogliamo ancor più cattivo. Ecco l'epigramma (quattro endecasillabi a rima alternata).

"Questi è il rosso di pel Foscolo detto
Sì falso che cangiò fino se stesso
Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto;
Guarda la borsa se ti vien dappresso"

In pratica il Monti ironizzò sul colore rosso dei capelli di Foscolo. Ricordiamo a questo proposito il topos letterario che dipinge le persone di "pelo rosso" come strane e pericolose (emblematico il caso del Rosso Malpelo di Verga).
Inoltre Foscolo veniva accusato di essere falso, talmente falso che aveva cambiato persino il proprio nome! In effetti il reale nome di Foscolo era stato Niccolò. Il poeta iniziò a farsi chiamare Ugo solo nel 1795 (era nato nel 1778).
L'ultimo verso è poi la degna conclusione della quartina. Quando siete vicini a Foscolo, fate attenzione alla vostra borsa!

mercoledì 14 marzo 2007

Omero: la persona del poeta

La letteratura greca comincia con due lunghi poemi, l'Iliade e l'Odissea. Gli antichi li attribuivano a un poeta di nome Omero. Ma di Omero non sapevano nulla. Le Vite che abbiamo di lui (una delle quali attribuita falsamente allo storico Erodoto) non hanno valore, perchè sono veri romanzi, scritti da chi si proponeva di scrivere il romanzo del poeta, non la sua biografia. Come osservava giustamente Giambattista Vico, gli antichi pretendevano di sapere di Omero un'infinità di particolari, mentre ignoravano le notizie fondamentali, quelle sull'età e la patria. Romanzesco è anche il Certame di Omero e di Esiodo, il racconto di una gara poetica in cui Esiodo, il poeta della pace, vince Omero, il poeta della guerra.
Il nome Omero è un buon nome greco che significa "ostaggio". Molte città greche si contesero il vanto d'aver dato i natali al poeta: Smirne, Chio, Colofone, Cuma, Pilo, Itaca, Argo, Atene. Le pretese più insistenti erano di Chio e di Smirne. Ma anche Chio può essere eliminata facilmente. Non importa molto che a Chio vivessero "gli Omeridi", una famiglia di poeti che si vantavano di discendere da Omero. Noi sappiamo com'è nata la leggenda della nascita a Chioo. Il poeta di uno degli inni "omerici", dell'inno ad Apollo Delio, chiama sè stesso "il cieco che abita nella rocciosa Chio". Quasi tutti gli antichi attribuirono a Omero i così detti inni "omerici": di qui derivano le due leggenda della nascita a Chio e della cecità. Ma nessun critico moderno attribuisce a Omero gli inni "omerici": cieco e nato a Chio è, dunque, non Omero, ma il poeta dell'inno ad Apollo Delio.
Resta la tradizione della nascita a Smirne. La città dell'Asia Minore, una colonia eolica più tardi divenuta ionica per una nuova colonizzazione, spiegherebbe bene, si è pensato, il dialetto dell'Iliade e dell'Odissea, che è ionico, ma con una forte mescolazna eolica (e l'elemento eolico si rivela quello più antico). Ma la mescolanza di ionico ed eolico nei poemi omerici è un fenomeno puramente letterario, poichè l'eolico ricorre generalmente in epiteti e formule fisse. Le pretese di Smirne non sono più giustificiate di quelle di altre città dell'Asia Minore.
Quanto all'età, secondo Erodoto, Omero sarebbe fiorito verso l'850 avanti Cristo. Ma lo storico di Alicarnasso faceva soltanto un'ipotesi, non sapeva nulla di positivo.
Gennaro Perrotta, Disegno storico della letteratura greca

martedì 13 marzo 2007

L'epopea di Gilgamesh (Alberto M.)

L'Epopea di Gilgamesh è un antichissimo poema epico assiro babilonese risalente a circa 3000 anni fa. È scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla.
La composizione è opera in parte dei Sumeri, in parte, in epoca più tarda, dei Babilonesi e degli Assiri.
Il protagonista è Gilgamesh, il re sumero di Uruk, che in compagnia dell'eroe Enkidu affronta numerose avventure, alla ricerca del segreto dell'immortalità.
L’epopea di Gilgamesh ci offre molte preziose notizie sul mondo dell’antica Mesopotamia.
La storia è basata su sentimenti e ideali universali: l'amicizia, la gloria, la ricerca dell'immortalità, la paura della morte.

Questa in sintesi la storia (tratta da wikipedia):
Gilgamesh, per due terzi divino e per un terzo umano, è un sovrano tirannico che costringe i giovani guerrieri della sua città a continui e sfiancanti esercizi, finché non incontra Enkidu, creatura selvaggia plasmata dagli dei per rispondere alle preghiere dei cittadini di Uruk. Gilgamesh ed Enkidu lottano selvaggiamente, durante la festa di Ishkarra (nella quale alcuni studiosi ritengono di ravvisare una sorta di ius primae noctis). Non riuscendo a prevalere nonostante la sua forza leggendaria, Gilgamesh, colpito dal valore del suo avversario, stringe con lui un solenne patto d'amicizia.
I due amici si avventurano fuori dalla città verso la foresta dei cedri dove il terribile mostro Humbaba sta a guardia dei pregiati alberi. Il loro scopo è tagliare i tronchi più belli per portarli ad Uruk ma vengono scoperti dal mostro. Uniti combattono e sconfiggono la bestia e così i due eroi trionfanti fanno ritorno ad Uruk con il prezioso bottino, dove la dea Ishtar, impressionata dalla bellezza e dal valore di Gilgamesh, gli propone di diventare suo sposo, ma riceve un netto rifiuto (motivato dalla discontinuità dell'amore della dea, che era solita condannare in un modo o in un altro i suoi amanti). Ella, quindi, chiede a suo padre Anu di affidarle il Toro celeste, che scatena per le strade di Uruk. Enkidu affronta due volte il toro, dapprima da solo, e poi con l'aiuto di Gilgamesh, e durante il combattimento afferra il toro per la coda mentre Gilgamesh lo colpisce con la sua spada tra le corna. I due eroi trionfano, forti del loro valore. Enkidu tuttavia per volontà degli dei muore a seguito di una malattia e Gilgamesh per la prima volta è affranto dal dolore.
Sconvolto egli parte alla ricerca dell'unico uomo che conosce il segreto dell'immortalità: Utnapishtim, il lontano, antico re di Shuruppak e sopravvissuto al diluvio, ma quando dopo numerose peripezie riesce ad incontrarlo, nella terra di Dilmun - là dove sorge il sole - deve arrendersi all'evidenza: le circostanze che hanno dato al suo antenato l'immortalità sono eccezionali e non ripetibili. Riceve però indicazioni su come raccogliere in fondo al mare un'erba simile al biancospino il cui nome è vecchio-ritorna-giovane, che intende portare al suo popolo, ma dopo essere riuscito a coglierla, immergendosi con l'aiuto del battelliere Urshanabi, mentre si riposa accanto a un ruscello un serpente la porta via e dopo averla mangiata, cambia pelle. Gilgamesh fa quindi ritorno ad Uruk, e qui l'epopea babilonese classica si interrompe.
Nella dodicesima tavoletta, incompleta, del testo ninivita, viene però riportato un episodio che per le sue peculiarità linguistiche e formali e per la scarsa coerenza con il resto della narrazione appare come un mito a sé stante, con Gilgamesh ed Enkidu come protagonisti. Vi si narra della perdita da parte di Gilgamesh di due oggetti simbolici di grande valore, un pukku e un mekku, nella "Terra"(ovvero nell'oltretomba). Si tende ad identificare questi due oggetti rispettivamente con un tamburo e una bacchetta, strumenti musicali di carattere sacro nell'antica Mesopotamia. Enkidu si offre di discendere agli inferi per ricuperarli, ma nel farlo non segue i consigli elargitigli da Gilgamesh per poter ritornare alla luce, rimanendo prigioniero dell'oltretomba. Gilgamesh prega il dio Enki di poter ancora un'ultima volta parlare ad Enkidu, e viene esaudito: Enki intercede presso Nergal, signore dell'oltretomba, che permette all'anima di Enkidu di uscire temporaneamente dal Kur. Nell'ultima parte del testo, fortemente lacunosa, Enkidu racconta all'amico diletto la sua esperienza dell'al di là, dipinto nei termini cupi e privi di speranza tipici della letteratura sumerica e mesopotamica.
La dodicesima tavoletta di Ninive fa parte in realtà di un mito sumerico: "Gilgamesh e l'albero di Huluppu", noto in altre versioni. In esso Gilgamesh, dopo aver abbattuto un albero gigantesco, costruisce con il suo legno un seggio per sé e la dea Inanna (Ishtar), il pukku e il mekku (in questa versione del mito quindi Gilgamesh corrisponde all'amore della dea).

ALBERTO M.

domenica 11 marzo 2007

Ugo Foscolo e Vincenzo Monti


Vincenzo Monti tradusse l'Iliade senza conoscere il greco. Si rifece quindi alle traduzioni latine e alla traduzione italiana di Melchiorre Cesarotti. Per questo motivo Ugo Foscolo, che peraltro si cimentò anche lui nella traduzione del poema, gli dedicò il seguente ironico epigramma.


Questi è Vincenzo Monti cavaliero,
gran traduttor dei traduttor d’Omero.